VENNE UN UOMO, MANDATO DA DIO

Data

per la festa onomastica di

 S. E. Mons. Giovanni Ferro, Arcivescovo 

Reggio Calabria, 24 giugno 1977

Eccellenza Reverendissima, Signor Sindaco, autorità, amici tutti qui convenuti, consentitemi di fare appello innanzitutto alla vostra benevola comprensione. Mi riesce, stasera, particolarmente difficile parlare. Questa festa onomastica, infatti, ci vede per l’ultima volta radunati insieme – più numerosi che mai – nell’Auditorium San Paolo, attorno al nostro venerato Arcivescovo che sta per lasciare la nostra diocesi: è pur vero che il saluto ufficiale sarà dato solo sul finire del mese di agosto nella Chiesa Cattedrale, ma oggi è pur sempre vigilia di quel giorno ormai vicino e come ogni vigilia c’è tanta trepida commozione nel cuore di ognuno di noi.

Interpretare sentimenti e voti di tutti e di ciascuno è, pertanto, compito così arduo che, inizialmente, ho cercato di officiare altri per parlare stasera di mons. Ferro. E sono ancora convinto che molti avrebbero potuto assolvere a questo compito più adeguatamente di me.

Ho dovuto, però, cedere alle motivazioni di coloro che, con affettuosa insistenza, mi chiedevano di tenere io il discorso augurale facendo leva sull’ufficio che provvisoriamente ricopro e in virtù del quale sono – contro ogni mio merito – delegato ex officio a rappresentare la comunità dinanzi al Vescovo. In tale veste sono qui stasera, ma non certo solo per adempiere ad un dovere inerente ad un servizio ecclesiale: sono qui come prete, come figlio di questa Chiesa reggina, per dare voce a ciascuno di voi nel porgere a mons. Giovanni Ferro gli auguri più fervidi, devoti, sinceri, con la gioia di un figlio che si rivolge al padre, tra fratelli di cui conosce pensieri e sentimenti, all’unisono con i suoi, in un’ora di così partecipata commozione.

Debbo confidarvi, ancora, un’altra difficoltà di questo mio dire. Ogni discorso augurale quasi inevitabilmente tocca motivi che possono turbare la modestia del festeggiato: se il discorso augurale cade alla vigilia della partenza di un Vescovo, padre amatissimo della sua Chiesa per oltre ventisei anni – e di un Vescovo della statura morale e spirituale di mons. Ferro – è cosa ardua, direi quasi impossibile, non offendere la delicata sendsib8ilità di chi è meritatamente oggetto di unanime ammirazione e gratitudine.

A Lei, quindi, Eccellenza, chiedo in special modo venia se, nonostante il mio sforzo di evitare ogni espressione elogiativa, potrò arrecarLe dispiacere dovendo parlare del Suo lungo, luminoso servizio episcopale nelle Chiese di Reggio e di Bova: l’elogio più alto, più pieno, è nei fatti, da riferire con fedele testimonianza alla verità.

Posso solo assicurarLa che non dirò tutto, forse nasconderò alcuni aspetti più belli della Sua vita intima di Vescovo: non riferirò episodi che hanno il sapore di fioretti francescani circa il suo spirito di povertà, la sua eccezionale disponibilità a tutto scusare, a perdonare sempre, a dimenticare, la sua forte vita interiore di preghiera costante, umile, fervorosa, la sua generosità di cuore per ogni sofferenza.

Questa concessione potevo fargliela, Eccellenza, anche se so di deludere tante legittime attese da parte di molti, e mi sono imposto, pertanto, di fare violenza ai sentimenti, i più puri e legittimi, pur di evitarLe ulteriore disagio nel dovermi ascoltare.

“Venne un uomo, mandato da Dio”. Ero alla ricerca di una espressione che sintetizzasse questo mio discorso con voi nella festa onomastica di mons. Ferro: si affollavano tanti motivi, tutti validi, ma li andavo scartando uno dopo l’altro.

Mi sovvenne, intento, del saluto che il grande Patriarca di Costantinopoli, Atenagora, aveva inviato in occasione dell’elezione di Angelo Giuseppe Roncalli al soglio di Pietro. “Giovanni sarà il mio nome”, aveva detto sorprendendo, fin da quel momento, i Cardinali e il mondo, il vegliardo Vescovo di Venezia che da quell’ora si chiamò Giovanni XXIII.

E dal lontano Oriente, un profeta, in tutta sintonia di spirito – com’è misteriosa la comunione che Dio sa realizzare tra i suoi figli al di là di ogni divisione di razza, lingua, di religione! – immediatamente a sua volta sorprendeva tutti inviando, dopo secoli di separazioni e di lotte, un messaggio augurale che si apriva con queste parole, ispirate al Vangelo ed applicate, con felice intuizione a Giuseppe Roncalli; “Venne un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni”.

Forse, pochi in seno alla stessa cattolicità avevano intuito il grande dono che Dio faceva in Giovanni XXIII alla sua Chiesa e all’umanità intera: la rivelazione veniva, invece, dal vecchio Patriarca Ortodosso, che aveva letto ed interpretato i segni dello Spirito.

Man mano che gli anni – pur così breve – del pontificato giovanneo si andavano snodando ricchi di tante luce per la Chiesa e per l’umanità, diveniva sempre più chiaro per tutti il significato del saluti profetico di Atenagora: Giovanni XXIII era veramente il grande dono di Dio per il Suo popolo e per il mondo intero.

Mi sia lecito, amici, parafrasando così alto messaggio profetico, applicarlo al servizio episcopale di mons. Giovanni Ferro nelle Chiese di Reggio e di Bova.

Nulla di profetico – direi neppure di intuitivo – ma solo una lettura semplice ed onesta di ventisei anni di ministero apostolico del nostro Arcivescovo, mi ha suggerito questa interpretazione, in chiave di fede, della Sua presenza tra noi.

Per le nostre Chiese particolari –sarei tentato di dire per la nostra Calabria sulla testimonianza di tanti Vescovi della Regione – Giovanni Ferro è stato un grande dono di Dio – un uomo mandato da Lui per preparare la sua strada nei nostri giorni, in spirito di fede, di povertà, di amore.

Vorrei, quindi, con voi ripassare a ritroso questo arco di tempo che va dal 2 dicembre 1950 ad oggi, ma così, con una lettura semplice – non aneddotica né solo cronaca – di fatti e avvenimenti ecclesiali che hanno contrassegnato questo felice periodo della vita delle nostre Chiese, di presenza attiva, nella realtà sociale, di crescita di Chiesa in fedeltà, in obbedienza allo Spirito.

I Vescovi – leggiamo nella costituzione Lumen Gentium (sulla Chiesa) del Concilio Vaticano II – sono il principio visibile e il fondamento dell’unità nelle loro Chiese particolari (338). Quali successori degli Apostoli ricevono dal Signore la missione di insegnare a tutte le genti e di predicare il Vangelo a ogni creatura, affinché tutti gli uomini, per mezzo della fede, del battesimo, dell’osservanza dei comandamenti, ottengano la salvezza.

Questo ufficio, che il Signore ha affidato ai pastori del suo popolo, è un vero servizio che nella Sacra Scrittura è chiamato significativamente “diaconia” o ministero. I Vescovi sono i maestri – i “dottori autentici”, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo – che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare alla pratica della vita, che illustrano questa fede alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della rivelazione cose nuove e cose vecchie (Mt 13, 52), le fanno fruttificare e vegliano per tenere lontano dal loro gregge gli errori che lo minacciano (n. 344). Insigniti della pienezza del sacramento dell’Ordine, essi sono distributori della grazia del supremo sacerdozio specialmente nell’Eucaristia, della quale la Chiesa continuamente vive e cresce (n. 348) e con i sacramenti, dei quali con la loro autorità organizzano la regolare e fruttuosa distribuzione, santificano i fratelli (n. 350) ed infine “esse reggono le chiese particolari a loro affidate come vicari e delegati di Cristo, col consiglio, la persuasione, l’esempio, ma anche con l’autorità e la sacra potestà, della quale, però, non si servono se non per edificare il proprio gregge nella verità e nella santità, ricordandosi che chi è il più grande deve farsi il più piccolo e colui che governa come colui che serve”. (Lc 22, 26-27 e LG n. 351)

Un servizio da realizzare in comunione con i loro presbiteri e con i fedeli tutti affidati alle loro cure. A questo insegnamento del Concilio, che ripropone quello evangelico vissuto nella tradizione della Chiesa adattandolo, immutato nella sostanza, alle condizioni degli uomini di oggi, mons. Ferro è stato linearmente fedele e voi – con la vostra presenza così numerosa, attenta, commossa – ne rendete con me testimonianza. Del Suo servizio di maestro nella fede sono state raccolte e pubblicate le “Lettere Pastorali” che ne costituiscono uno dei momenti più impegnativi e validi e che resteranno per tanti, per molti credo, come un viatico per un cammino di vita sempre più autenticamente cristiana.

Instancabile nell’annuncio del messaggio evangelico nella sua Cattedrale, ogni volta che presiedette la liturgia predicò sempre il Verbo di salvezza, nelle visite pastorali – per cinque volte adempì con gioia a tale dovere episcopale in tutte le parrocchie, anche le più piccole e sperdute delle due Diocesi dal Duomo di Reggio a Chorio di Roghudi, da Bagnara a Brancaleone – in ogni convegno, raduno, incontro anche di un modesto gruppo di persone Egli fu il predicatore della Parola di Dio a tutti, come esorta l’apostolo Paolo nella seconda lettera a Timoteo al capitolo 4, offrendo del messaggio predicato prima e più efficace testimonianza nella sua vita povera ed umile, tutta spesa, fino all’estremo dono delle forze fisiche, nascondendo a tutti sofferenze e dolori, in una donazione sempre sostanziata di gioia e di pace spirituale.

Primo liturgo della sua Chiesa, presiedette alla celebrazione della Eucaristia e dei Sacramenti nelle comunità delle due Diocesi edificando tutti, ascetica figura di pontefice assorto in Dio, con la sua sacerdotale pietà.

Durante il Suo ministero tra noi, tre degni sacerdoti della nostra Arcidiocesi furono elevati all’ordine dell’Episcopato: mons. Antonio  Mauro. Arcivescovo titolare di Sagaste, Delegato Pontificio per le basiliche di San Paolo fuori le mura in Roma e Sant’Antonio in Padova, ordinato dal Sommo Pontefice Paolo VI nella Basilica di San Pietro il 16 luglio 1967 e quindi, mons. Santo Bergamo, amministratore apostolico di Oppido e mons. Giuseppe Agostino, arcivescovo di Santa Severina, vescovo di Crotone e Cariati, cui impose le mani, per mandato apostolico, lo stesso mons. Ferro nel corso di indimenticabili concelebrazioni che ebbero luogo nella nostra Cattedrale, rispettivamente il 25 gennaio 1970 e l’11 febbraio 1974.

Ebbe Egli ancora la gioia di ordinare Sacerdoti ben 60 giovani delle due Diocesi (oltre un terzo del numero totale di presbiteri) costituendoli “provvidi cooperatori” del Suo ministero Episcopale, di accogliere i voti religiosi di centinaia di anime a Dio consacrate, di confermare nella fede migliaia di suoi figli, di celebrare per moltissimi – posso dire per tutti coloro che lo richiedessero, soprattutto per i più umili, per i più poveri – i sacramenti del matrimonio e del battesimo, assiduo specie nella Cattedrale, al ministero della riconciliazione penitenziale ogni volte che poté rendersi libero da altri impegni, ma soprattutto nelle festività liturgiche più solenni dell’anno.

E quando il Concilio dischiuse la ricchezza delle concelebrazioni eucaristiche e delle celebrazioni comunitarie della penitenza, Egli, con esultanza dello spirito, le volle subito introdotte nelle sue Diocesi e le presiedette sempre, circondato dai suoi preti, dai suoi fedeli.

Del popolo a Lui affidato si fece guida ed esempio – factus forma grecis ex animo, secondo l’insegnamento di Pietro – ed è stato nel suo governo, nel suo servizio episcopale, Padre vigile, attento, fermo e autorevole quando necessario, ma sempre buono, comprensivo, longanime, tanto che talvolta discorde apparve nella immediatezza dei fatti il giudizio del suo ministero. A distanza di anni, riesaminando più obiettivamente situazioni e circostanze, mi pare sia conforme alla verità rendere testimonianza che mons. Ferro tenne, soprattutto, fede al motto del Suo episcopato: “Omnia in charitate”.

Non è facile certo riassumere né esprimere in dati e cifre le tappe luminose di questo servizio di magistero, di santificazione, di guida. Tutto sommato guasterebbero la poesia di questo incontro.

Vorrei solo ricordare alcuni momenti che per molti di noi sono particolarmente significativi:

  • il Congresso Liturgico Nazionale (1953);
  • l’Anno Mariano e la ricostruzione del Santuario della Madonna della Consolazione (1954);
  • il Concilio Plenario Calabro (14 – 16 novembre 1961);
  • la celebrazione del XIX Centenario dell’arrivo di San Paolo a Reggio (1961);
  • la istituzione della Scuola Superiore di Teologia per laici (1972);
  • la Consacrazione della Basilica dell’Eremo (1972);
  • la ricostruzione ex novo di ben 76 edifici dedicati al culto;
  • la fondazione di 19 parrocchie in Reggio e Bova.

Ma meglio ancora vorrei ricordare alcune pietre miliari di questo cammino:

  • l’impulso costante alle iniziative di formazione di operatori per la catechesi e di attività evangelizzatrici, della stampa in particolare;
  • l’impegno, forse fra tutti preminente, per la gioventù in molteplici espressioni organizzative;
  • l’attenzione al problema missionario;
  • l’amore, il rispetto, per i suoi sacerdoti, per tutti, sempre (anche se talvolta non da tutti sempre compreso);
  • la cura diuturna, instancabile delle vocazioni sacerdotali (conobbe ognuno dei giovani seminaristi, per tutti e per ciascuno ebbe l’affetto di padre);
  • l’aver esercitato il carisma proprio degli apostoli con particolare disponibilità alle mozioni dello spirito accogliendo in diocesi, incoraggiando, sostenendo varie espressioni della spiritualità, molteplici iniziative di apostolato, di carità, anche le nuove e ardite;
  • l’aver favorito la crescita della Sua Chiesa nel rispetto della libertà dei figli di Dio, nella fiducia accordata senza riserva a tutto ciò che di buono, di vero, il Signore andava suscitando, armonizzando però doni e carismi nell’unità della comunione di fede e d’amore. Preoccupato, sempre, di conservare l’unità dello spirito col vincolo della pace.

Ed infine:

  • la sollecitudine a costituire, subito dopo il Concilio alle cui sessioni partecipò con assidua presenza dal 1962 al 1965 arrecando sempre il contributo della sua preparazione teologica e della sua esperienza pastorale, il Consiglio Presbiterale e quello Pastorale, quali ambiti privilegiati per vivere e far crescere la Chiesa in comunione con il Vescovo, presenziando quasi sempre a tali incontri collegiali, anche con notevoli sacrifici.

Fra i documenti più preziosi di questo periodo credo, infine, si debba iscrivere il Direttorio Pastorale Diocesano, pubblicato il 29 ottobre 1975, per il XXV di episcopato di mons. Ferro, accolto con ammirazione anche a livello nazionale dalla stampa e dagli operatori della pastorale.

Egli stesso ebbe a presentare alle comunità diocesane il Direttorio come “frutto di amoroso studio dei Consigli Presbiterali e Pastorale e di valide esperienze debitamente approvate”, guida, sia pure modesta ma destinata a portare in ogni parte della Diocesi un nuovo soffio di spiritualità, che aprirà nuove vie per una azione pastorale più illuminata e più feconda, meglio rispondente alle esigenze di un mondo inquieto e smarrito, da ricondurre alle pure sorgenti della verità e della grazia.

Il detto paolino: “veritatem facientes in charitate” è stato uno dei motivi più ricorrenti dell’insegnamento di mons. Ferro. Per amore della verità, dunque, sono qui ora necessarie alcune riflessioni.

Questo cammino delle nostre Chiese è stato intrapreso ex novo nel 1950 con mons. Ferro? No, di certo: esso si ricollega, in modo vitale, agli anni che lo hanno preceduto, in particolare ai due gloriosi episcopati di mons. Montalbetti e di mons. Lanza, indimenticabili Pastori della Chiesa Reggina.

Mons. Ferro ebbe il merito di aver saputo operare intelligente saldatura con il passato. Proteso, però, in avanti, attento alle esigenze pastorali dei tempi nuovi, imprimendo al lavoro apostolico l’originalità “dell’omnia in charitate” ragione d’essere, più che del suo stemma, della sua vita tutta.

Non vi sono stati errori, limiti, carenze? Sicuramente, sì: la fragilità della condizione umana – cui sono soggetti anche i Vescovi – esige questa confessione semplice ed umile, tante volte presente del resto negli scritti e nei discorsi di mons. Ferro; ma noi tutti possiamo testimoniare che in Lui fu costante la tensione a superare le umane imperfezioni e a correggere gli errori nella piena disponibilità alla azione della grazia e al colloquio con i fratelli, a torto o a ragione, ma sempre involontariamente, offesi.

Ed ancora. E’ doveroso riconoscere che un’attività apostolica così articolata, così imponente per mole di lavoro, per molteplicità di opere realizzate, non sarebbe stata possibile se le Chiese di Reggio e di Bova in tutte le loro componenti, sacerdoti, religiosi, fedeli, non avessero dato al loro vescovo sempre pronta, generosa collaborazione; soprattutto se anime umili e ignorate, ammalati, anziani – grati anche per gli incontri singolarmente avuti con l’Arcivescovo in occasione delle visite pastorali – non avessero sostenuto con la loro preghiera e con i loro sacrifici l’insonne fatica di mons. Ferro.

Ma è anche vero che dal 2 dicembre 1950 ad oggi animatore intelligente e saggio, spesso ideatore e promotore, guida illuminata e zelante di questo cammino di fede, è stato l’arcivescovo Ferro: le nostre Chiese hanno potuto guardare a Lui, sempre, come al Padre buono, che tutti precedeva con la parola ardente di fede e con la irrefutabile testimonianza della vita.

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie  e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Perciò la Chiesa “si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”…è il suggestivo proemio della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo donatoci dal Vaticano II.

E’ l’impegno che la Chiesa, nella luce dello Spirito di Dio, si è ancora assunta di portare avanti come suo dovere di fedeltà a Cristo Signore e all’uomo di oggi, per la cui evangelizzazione e promozione integrale essa si è sentita da Dio consacrata e mandata nel mondo.

Gioie e speranze, ma più ancora tristezze e angosce della gente di Calabria, dal 1950 ad oggi, mons Ferro fece sue e ne fece prendere coscienza alle Chiese di Reggio e di Bova, che sul suo esempio se ne fecero carico in reale e intima solidarietà con i più poveri ed emarginati.

Era venuto dal lontano Piemonte in una della province più misere d’Italia, attanagliata da mali endemici resi ancora più acuti da divisioni e contrasti, da corruzioni clientelari, dalla impreparazione della classe politica.

Mafia, disoccupazione specie giovanile, carenza di alloggi, lo sfruttamento del lavoro minorile, l’emigrazione, il basso reddito economico, costituivano nel 1950 e purtroppo lo sono ancora oggi, i più gravi problemi di giustizia sociale della nostra realtà meridionale.

Mons. Ferro impegnò la Chiesa locale tutta – se stesso in prima persona e sacerdoti e laici – per un’azione di denuncia di tali ingiustizie, di difesa della dignità dei più deboli ed oppressi ed orientò il suo insegnamento e la sua azione pastorale alla pacificazione degli animi, a favorire il dialogo tra fazioni opposte, a smussare gli angoli, ad additare mete di sicuro progresso morale e materiale, a ricordare costantemente a tutti – specie ai responsabili politici ed economici – i doveri della giustizia, della solidarietà, del bene comune, a contrastare con tutte le sue forze il senso di sfiducia, di abbandono, da cui siamo facili ad essere presi noi meridionali, infondendo sempre – con la parola e con l’esempio – coraggio e speranza per andare avanti, superando ogni difficoltà e contrasto.

In tutte le situazioni di ingiustizia e di sofferenza l’Arcivescovo è stato presente, sia con la parola che con l’azione possibile, così come sono stati con Lui presenti accanto ai fratelli emarginati, parecchi sacerdoti e laici, dal suo esempio, più che dalla sua parola, stimolati e convinti.

I risultati di tale presenza non sono concretamente valutabili, come è ovvio, ma sempre, da parte anche di persone lontane dalla Chiesa (fatta qualche eccezione dovuta a passionalità politica!) è stato espresso sincero apprezzamento per la testimonianza resa con vero spirito di condivisione.

Riservò alla scuola di ogni grado particolare fiducia come elemento portante nella formazione dei giovani, su cui fare leva per un cambiamento radicale di tante situazioni ingiuste.

E’ stato questo il tema ricorrente – fin quasi da sembrare ad alcuni monotono – in tutte le celebrazioni pasquali o d’inizio d’anno per gli alunni delle scuole, specie superiori: i giovani lo ascoltavano sempre con estrema attenzione e molti tra loro gli credettero, sul serio, così come furo tanti gli uomini di scuola che in Lui trovarono sostegno, incoraggiamento, forza morale per proseguire la loro missione.

La tirannia del tempo mi costringe a sintetizzare, mentre più ampio svolgimento meriterebbe l’esame di questo aspetto, per me particolarmente forte, dell’episcopato di mons. Ferro. Vorrei, anche qui, però sia pure di sfuggita, fare qualche accenno alla missione da Lui compiuta tra noi reggini.

  • La fondazione della Scuola Superiore di Servizio Sociale, fin dal 1951 a pochi mesi dal suo arrivo tra noi, per assicurare la formazione di qualificati operatori sociali in ogni settore della vita pubblica:
  • L’istituzione di oltre 120 Scuole Materne, nei paesi più lontani e nelle frazioni più abbandonate delle due diocesi, quando ancora le pubbliche autorità neppure avvertivano la necessità di provvedere all’educazione die bambini;
  • L’aver favorito con ogni mezzo l’avvio dell’Istituto Superiore di Architettura, che ebbe i natali proprio in questo Auditorium;
  • L’aver sostenuto – e concretamente, con personali sacrifici – il sorgere dell’Istituto Superiore di Studi Europeo;
  • L’aver incoraggiato ogni valida iniziativa culturale, da chiunque promossa;

Fra tante iniziative, poi, consentitemi di ricordare la Settimana Sociale dei Cattolici d’Italia, sul tema: “Le migrazioni nel mondo contemporaneo” che ebbe luogo a Reggio dal 25 settembre all’1 ottobre 1960.

         Per dare decorosa, funzionale accoglienza ai convegnisti, convenuti nella nostra città con il cardinale Siri, il Rettore e i docenti della Cattolica, uomini della Cultura, operatori sociali, volle – a tempo di record – in tre o quattro mesi appena, sorgesse questo Auditorium, inaugurato proprio il 26 settembre di quell’anno.

Gli atti di quella Settimana restano ancora oggi valido documento dell’attenzione intelligente, critica, impegnata di mons. Ferro e della sua Chiesa per uno dei problemi più acuti della nostra realtà meridionale.

Ultimo, in ordine di tempo, ma in piena coerenza con tutto l’impegno sociale di mons. Ferro, il  Documento dell’Episcopato Calabrese sulla Mafia del 30 novembre 1975, documento accolto con rispetto e ammirazione da parte di tanta parte del mondo culturale e politico non solo calabrese, ma italiano.

Non rivelo un segreto nel dire che di quel documento mons. Ferro fu il promotore e il responsabile estensore. Unico suo rammarico il constatare che ad esso non sono seguite coerenti, costanti iniziative promozionali né sul piano civile né su quello ecclesiale.

Scrivendo a mons. Ferro per il XXV di episcopato – da noi celebrato con così corale, devota partecipazione di clero e di popolo il 29 ottobre 1975 – il cardinale Siri disse di lui un elogio che mi piace riferire, tanto lo trovo espressivamente sintetico di tutto quello che non ho potuto o saputo dire: “Vostra eccellenza, ha il pieno diritto di guardare a questo lungo periodo con soddisfazione e gioia: l’esempio, la parola, l’opera indefessa, l’aver assunto la vera cittadinanza calabrese, che è quella del sentimento e del cuore, Dio la benedica per tutto!”.

Un uomo mandato da Dio, tra noi e per noi, che si è saputo fare uno di noi in tutte le ore della nostra storia, specie in quelle più tristi.

Due tremende alluvioni (1951 e 1953) misero a dura prova, fin dall’inizio, le capacità organizzative di mons. Ferro, le sue pronte intuizioni dei nuovi bisogni, la sua ricchezza di cuore.

Reggio, Bova, Locri: le tre Diocesi più provate lo videro accorrere con rischio della vita – il guado del Laverde per poco non tramutatosi in episodio mortale – suscitare e moltiplicare energie dovunque, specie tra i giovani, sollecitare con insistenza fin quasi eccessiva, interventi della autorità pubbliche, porre e disposizione Chiese e Opere ecclesiastiche per ospitare migliaia di alluvionati.

E la Casa della Solidarietà! – perdonatemi se debbo ora accelerare il passo – con felice intuizione volle che prima della ricostruzione del santuario dell’Eremo si provvedesse ad edificare otto case per senza tetto nel rione Ravagnese: Case della Solidarietà le chiamò, auspicando che privati ed Enti seguissero l’esempio di dare subito, presto, una casa a chi non ne aveva.

Messa dell’Epifania 1954: l’Arcivescovo che dona, all’improvviso, la Croce con la catena pettorale e il popolo che all’Offertorio, convinto dalla forza di quel gesto, dà ben sei milioni. Altri ne vennero e le case furono inaugurate l’otto dicembre 1954, lo stesso giorno in cui fu deposta la prima pietra del nuovo Santuario dell’Eremo.

E poi i fatti di Reggio! Giorni amari che mons. Ferro condivise con tutti, dal primo all’ultimo, accanto al suo popolo, padre e difensore della sua gente, ma sempre pastore vigile e fedele alla sua missione di testimone della verità, della giustizia, del perdono.

In più occasioni, altri, più degnamente di me, hanno trattato della opera indimenticabile di mons. Ferro in quel tragico periodo: mi sia permesso dire, così modestamente, una mia impressione di quei mesi tremendi: a me mons. Ferro è sembrato rivestisse in quell’ora – con estrema dignità – nella carenza di ogni altra responsabile presenza, la presenza di Vescovo e di Console della sua città, missione adempiuta con insospettato coraggio, con estrema prudenza e con illuminata saggezza.

Qualche passionale, ingiusta espressione nei suoi confronti da parte di alcuni (ben pochi, a dire il vero) trovò immediata smentita e riprovazione in tutta la città di Reggio; se nel giudicare il suo atteggiamento uomini politici e perfino di governo poterono avere esitazioni e riserve, l’evolversi dei fatti diede pienamente ragione a mons. Ferro: Reggio aveva soprattutto bisogno di dialogare con i responsabili della vita pubblica; di discutere i propri amari problemi, di trovare uno sbocco per tante ingiuste situazioni subite.

Questo l’Arcivescovo chiedeva per il suo popolo: che fosse ascoltato, che non si barasse sulla pelle dei reggini, che si trovassero oneste soluzioni nella giustizia e nella verità.

Anche in Vaticano – nei mesi dell’estate 1970 – per indebite pressioni, ci fu qualche perplessità sui fatti di Reggio, poi pienamente fugata, così come documentato nel libro: “Significato di una presenza” che la diocesi pubblicò nel dicembre di quell’anno.

Manca in quel testo, però, la documentazione dell’ultimo, tragico periodo gennaio –febbraio 1971, culminato nell’episodio di Sbarre – che senza alcuna retorica sento di poter definire eroico – quando per l’azione coraggiosa dell’Arcivescovo fu evitato sicuro spargimento di sangue e si pose fine ad una drammatica situazione a tutti sfuggita di mano, del cui sblocco mons. Ferro fu ardimentoso protagonista.

Al suo popolo – che sempre in Lui ebbe fiducia – solo l’Arcivescovo poté parlare in quell’ora, solo Lui poté indurre anche i più ribelli, come già nella tragica notte del 17 settembre,  a deporre le armi e a ricercare ancora le vie della non violenza.

Pochi giorni dopo i fatti di Sbarre una telefonata dal Quirinale annunziava l’arrivo a Reggio di un incaricato del Presidente della Repubblica, latore di un dono e di un messaggio da parte del Presidente On.le Giuseppe Saragat. Il dono (un semplice calice d’argento) fu consegnato nelle mani di mons. Ferro accompagnato da un messaggio, che in quel momento sembrò opportuno, su richiesta dello stesso Presidente, tenere segreto.

Oggi soltanto, trascorsi diversi anni, mons. Ferro mi ha autorizzato a renderlo di pubblica ragione, nell’ora in cui lascia il governo pastorale di Reggio.

Ve ne dò lettura con profonda commozione.

Il Presidente della

Repubblica Italiana                        

                     Roma,    23 febbraio 1971         

Eccellenza Reverendissima,

in segno del mio più vivo apprezzamento per l’opera di carità cristiana e di civica pacificazione che Ella svolge nella nobile città di Reggio Calabria, desidero farle pervenire questo mio personale ricordo insieme all’augurio che la Sua attività pastorale raggiunga i risultati da noi tutti desiderati.

Accolga, Eccellenza Reverendissima, l’espressione dei miei cordiali sentimenti.

                                                                            Firmato

                                                                     Suo

                                                                             Giuseppe Saragat

         Così alto, onesto riconoscimento dell’opera di mons. Ferro, l’unico in quell’ora buia, credo meriti, finalmente la pubblicazione insieme agli atti di tutto quel tormentato periodo della nostra storia.

4 giugno 1977. Nel salone dell’Episcopio, mons. Ferro comunicava che il Santo padre aveva accettato le dimissioni da Lui inviate nel novembre del 1976, per raggiunti limiti di età. In ossequio alle direttive del Vaticano II e aveva nominato Arcivescovo di Reggio e Vescovo di Bova mons. Aurelio Sorrentino.

Verrà in mezzo a voi dall’arcidiocesi di Potenza”, dirà nell’ultimo suo messaggio alle Diocesi già sue, “e voi lo accoglierete come inviato da Dio, mons. Aurelio Sorrentino, che vi sarà padre amatissimo e vi guiderà nelle vie del Signore”.

Alla luce dell’insegnamento e dell’esempio di mons. Ferro, nel prossimo mese di settembre, alla vigilia delle feste in onore della Madonna della Consolazione, andremo incontro a mons. Sorrentino, come figli che accolgono, con l’amore che nasce dalla fede, il nuovo Padre che assume la responsabilità delle nostre Chiese e che ha diritto alla nostra devozione ed obbedienza.

Pochi giorni prima, sul vespro del 27 di agosto, mons. Ferrò prenderà commiato da noi in Cattedrale.

Ho ascoltato anch’io con commozione le espressioni di viva, sentita emozione di tanti sacerdoti, fedeli, di persone di ogni ceto sociale, sorpresi dalla notizia, quasi smarriti perché il Padre buono, ancora ricco di energie fisiche intellettuali, passava ad altri la responsabilità del ministero episcopale di Reggio e di Bova.

Anch’io, come tutti voi, ho sofferto quando ho appreso che mons. Ferro non sarebbe stato più il Pastore della nostra Chiesa.

Poi, nella preghiera, ho trovato una risposta.

Permettetemi di manifestarla a voi, nel clima di comunione che tutti ci lega: l’ho trovata, la risposta che ha dato pace al mio spirito proprio rileggendo il brano del Vangelo di Giovanni, cap. 12, 24 – 29: “In verità, in verità vi dico, se il granello di frumento, cadendo a terra non muore, esso resta solo, ma se muore, porta molto frutto. Chia ama la sua vita, la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la custodirà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo. E che dirò? Padre, salvami da questa ora? Ma sono venuto per questo, per questa ora! Padre glorifica il tuo nome”.

Ecco, a me sembra che adesso incominci la parte più preziosa della vita di mons. Ferro. Tutto quello che è avvenuto era solo preparazione a quest’ora.

L’entusiastico lavoro apostolico, l’immane fatica di 27 anni circa di Episcopato, le opere realizzate contano davanti a Dio molto meno dei meriti che ora Egli acquisterà per sé e per noi nel silenzio, nella preghiera, nel sacrificio, nella rinunzia: sono i più alti, i più autentici valori della fede che con Lui in quest’ora riscopriamo.

Per aiutarci a fare questa scoperta, per avviarci sulla via di tale esperienza di fede Egli ci è stato mandato da Dio.

Noi non lo potevamo prevedere, ora i disegni del piano di salvezza si rivelano, in parte almeno e per quello che ci è dato di credere: da oggi, mons. Ferro è più autenticamente Uomo di Dio per noi, non più direttamente impegnato nel governo delle nostre Diocesi, ma realmente più coinvolto nella storia della nostra salvezza.

Dinanzi all’irrompere di questa luce, viva e serena insieme, impallidiscono gli anni trascorsi, le iniziative intraprese, le opere compiute: non perdono certo di valore, ma si trasfigurano nel mistero di Cristo in una realtà più alta e più valida: l’emozione del commiato viene superata nella certezza che, risieda Egli vicino o lontano, mons. Ferrò sarà sempre in piena comunione con noi.

Per questo era venuto; “perché noi conoscessimo Dio e Colui che Dio ha mandato, Gesù Cristo Figlio suo e ci amassimo nel Suo Nome onde realizzare il suo regno di giustizia e di verità: questo dono incommensurabile di grazia mons. Ferro ora, nella nuova spirituale dimensione cui Dio lo ha elevato, più pienamente per tutti assicurerà, Padre, sempre venerato e caro, di tutti noi, valeas ad plurimos annos!

Sac. Italo Calabrò

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