Liberi di scegliere, Don Ciotti raccoglie il testimone di Don Italo Calabrò

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di Mario Nasone

 O stai cu previti, o stai cu nui. Questo l’ultimatum che Antonio (nome di fantasia) ricevette dalla madre, moglie di un boss ucciso in una delle tante guerre di mafia, che don Italo Calabrò conobbe al carcere minorile di Reggio Calabria e che al termine del percorso di affidamento fatto dal Tribunale per i Minorenni all’associazione Agape, con il compimento della maggiore età doveva fare una scelta. Ritornare al suo paese, prendere il posto del padre ucciso e curare i suoi affari come chiedeva la madre o fare una scelta dolorosa di rottura. Un passaggio lacerante per il giovane che dopo essere stato coinvolto in diversi atti criminosi ed avere quasi concluso il suo apprendistato nella mafia, grazie agli incontri fatti, aveva scoperto che un’altra vita era possibile. Scelse di stare dalla parte giusta e per questo è stato costretto ad andare via al nord dove, grazie alla rete di solidarietà attivata, trovo un lavoro, un inserimento sociale positivo, nuove amicizie. Vinse definitivamente la sua sfida quando convinse la madre a rompere anche lei con il clan ed a raggiungerlo.

Una delle tante storie emblematiche di quegli anni ’80 e ’90, non tutte con il lieto fine. Oggi possiamo con certezza riconoscere che le iniziative di accoglienza avviate fin dagli anni ’70 con grande determinazione e creatività da don Italo Calabrò a favore dei minori della provincia reggina, e quelle successivamente realizzate e o lui ispirate, sono state determinanti per la formazione umana di tanti bambini, ragazzi e giovani ospitati nelle famiglie e nelle comunità di accoglienza. L’accoglienza realizzata pur tra tante difficoltà, l’accompagnamento nelle tappe più delicate della loro vita, la possibilità di poter frequentare le scuole e di avere sicuri e credibili riferimenti educativi, sono stati fondamentali per consentire a quasi tutti di realizzarsi con dignità.

I ragazzi incontrati da don Italo, dal Centro Comunitario Agape, dalla cooperativa sociale Centro giovanile Don Italo Calabrò – prima casa famiglia del Sud Italia – pur provenendo da gravi forme di disagio, oggi sono uomini maturi, quasi tutti inseriti nella società. Tra questi anche i giovani appartenenti alle famiglie di mafia, hanno avuto la possibilità di confrontarsi con una proposta educativa alternativa a quella delle loro famiglie. E molti di loro come Antonio ce l’hanno fatta.

La svolta di questi ultimi anni, di tante mamme calabresi che chiedono a don Ciotti e a Libera una mano per poter vivere con i loro figli una vita nuova lontano dalla prigionia dei loro contesti mafiosi, è il frutto quasi maturo di quel seme di giustizia gettato da don Calabrò nella dura terra calabrese. Il sacerdote reggino condivideva pienamente quanto scriveva Danilo Dolci, frutto di un appassionato lavoro di liberazione vissuto in un altro lembo di terra complesso e difficile del Sud Italia: “Ciascuno cresce solo se segnato”. Contro ogni speranza, superando la logica della rassegnazione e credendo nelle grandi risorse che il cuore di ogni uomo possiede.

Il protocollo firmato nei giorni scorsi a Roma da Conferenza Episcopale Italiana, Procura nazionale antimafia, Procura di Reggio Calabria e Libera, è un suggello a questo lavoro, un segno di speranza che si muove su questo sentiero che Don Italo ha iniziato a tracciare, una causa quella della liberazione dei ragazzi dalle mafie che Don Ciotti oggi ha sposato assieme a tutta la grande famiglia di Libera.
La firma del protocollo tra CEI, Procura nazionale anti-mafia, Tribunale per i Minorenni, Procura della Repubblica di Reggio Calabria, Associazione Libera, rappresenta un importante passo in avanti del progetto Liberi di scegliere per dare una alternativa di vita ai minori che vivono in contesti familiare di ‘ndrangheta. E’ significativo che una delle firme dell’accordo sia quella di Cafiero De Raho che ha guidato la procura di Reggio Calabria che ha condotto operazioni giudiziarie, arresti dei latitanti, confische dei beni che hanno portato alla disarticolazione ed in diversi casi alla decimazione di intere cosche della ‘ndrangheta, creato scompiglio e vuoti di potere nei territori da loro controllati e restituito fiducia dei cittadini verso lo Stato. De Raho ha più volte affermato che questo risultato straordinario nel tempo rischiava di essere vanificato perché le famiglie mafiose sanno di potere contare sul ricambio generazionale assicurato da figli, picciotti e rampolli vari che costituiscono il loro vivaio dal quale attingono per riprodursi e garantire continuità al loro disegno criminale. Il programma Liberi di scegliere, stilato e condiviso con altri uffici giudiziari, è stato un successo come certificato recentemente anche dal Csm che su questo tema ha anche auspicato una legge ad hoc.

E’ cresciuto negli ultimi mesi anche il dibattito sul tema dell’allontanamento dei minori dalla famiglie mafiose, si sono levate anche voci contrarie che nella gran parte non tenevano conto che i provvedimenti di questo tipo non erano indiscriminati ma si poggiavano su elementi oggettivi e circostanziati di comportamenti gravi e pregiudizievoli dell’interesse del minore da parte degli adulti (come la loro utilizzazione per riscuotere il pizzo, spacciare droga, possesso di armi, ecc.) Provvedimenti che nella maggior parte dei casi non recidevano i legami familiari ma aprivano spazi per una loro ricomposizione e comunque davano al minore e spesso anche alle loro madri, la possibilità di scegliere un percorso di vita alternativo.

Questa sperimentazione ovviamente ha bisogno di verifiche e certamente di interventi migliorativi perché l’allontanamento del minore dalla sua famiglia è sempre una soluzione estrema a cui ricorrere, non solo per i minori che vivono in contesti mafiosi. Bisogna pensare ad un ventaglio di risposte diversificate e per questo è importante avere una normativa che non si limiti soltanto a regolamentare ad esempio tempi e procedure sulla revoca o sulla sospensione della patria potestà nei casi più gravi ma offra anche spazi, strumenti e risorse per rendere effettivo il diritto di questi minori a vivere esperienze di affrancamento dalla ‘ndrangheta senza per questo essere costretto ad allontanarsi dal suo contesto di origine.

Due le linee d’intervento possibili. Sul piano della prevenzione primaria serve una normativa che permetta un intervento nei Comuni e nei quartieri ad alto indice di criminalità organizzata sui minori a rischio. Riprendendo per esempio, con gli opportuni miglioramenti e modifiche, una legge simile alla 216/1991 (Primi interventi in favore dei minori soggetti a rischio di coinvolgimento in attività criminose) che aveva dato buoni risultati, prevedendo la continuità negli anni, la relativa copertura finanziaria e l’utilizzo dei fondi comunitari e dei beni confiscati alle mafie. Sul piano del recupero servono programmi organici d’intervento in grado di assicurare percorsi reali d’ uscita dai contesti familiari e sociali di ‘ndrangheta, rafforzando il lavoro già avviato su questo versante dal Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria e per questo è importante la scelta della Conferenza Episcopale Italiana e del Governo d’ investire delle risorse su questo programma. E’ importante che anche la Regione Calabria faccia la sua parte destinando risorse nel bilancio regionale e nella spesa comunitaria ad esempio per favorire l’inserimento lavorativo e l’autonomia di tutti quei ragazzi coinvolti che al compimento della maggiore età rischiano di rimanere senza riferimenti e opportunità.

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