Vi confermo che ho sempre una forte ritrosia a parlare di motivazioni, perché mi pare che ci sia negli interlocutori una resistenza, innanzitutto dal punto di vista psicologico. Si dà l’impressione di voler entrare nell’intimo della coscienza e credo che ogni uomo sia geloso di questa sua interiorità, quindi reagisca all’intruso che vuole dargli delle norme.
Un’altra difficoltà che ho in questi anni verificato è quella che da più parti, con diverse matrici culturali, è stata un po’ equivocata la parola motivazione, vocazione, come se questo fosse a discapito della professionalità o più ancora del giusto diritto alla retribuzione economica da parte di chi si impegna in un settore così stressante, sempre nuovo e non ricco di molte soddisfazioni, qual è quello dell’emarginazione degli handicappati mentali.
Mi pare che ci sia anche un’altra difficoltà: nel presentare delle motivazioni si corre il rischio di turbare la coscienza degli altri anche sotto il profilo “credenza o non credenza”, perché inevitabilmente nel dire le motivazioni si fa riferimento alla matrice da cui ognuno le trae. Quando si fanno i programmi e le dichiarazioni d’intenti credo che un po’ tutti siamo portati a riferirci a dei valori universali, quindi potremmo avere delle convergenze; la difficoltà è incarnare queste motivazioni e questi valori.
Una delle espressioni più felici e ricorrenti di Paolo VI era questa: “L’umanità non ha tanto bisogno di maestri quanto di testimoni”. Io credo che le motivazioni ognuno di noi può trarle leggendo la realtà, la vita, l’esperienza degli altri, e sono le motivazioni che ci convincono di più. Io mi convinco in ultima analisi delle motivazioni che ritengo validamente incarnate, validamente espresse.
Ed ora vorrei dirvi brevemente la mia esperienza. Il prete è colui che parla a favore della Chiesa, a favore della fede e pertanto deve parlare a favore dell’uomo. Giovanni Paolo II ha sintetizzato tutto questo in un’enciclica, la “Redemptor Hominis”, dove, pur partendo da una visione cristiana dell’uomo, viene proposta una lettura dell’uomo d’oggi che, non solo dal punto di vista antropologico, ma dal punto di vista dei contenuti, potrebbe andare bene per chiunque. Ora personalmente mi son trovato ad impegnarmi nel settore handicappati “per forza”; da questa forza’ è venuto un amore forte, una ragione d’essere della mia vita. Ma io avevo una preoccupazione di natura culturale, scientifica, perché guarda vo all’handicap come ad una realtà che non riuscivo a decifrare, a leggere, e avevo la preoccupazione che, impegnandomi in questo settore, io facessi dei pasticci, facessi più male che bene agli altri; inoltre, siccome non sono mai stato una persona molto paziente, credevo di non avere quella dose di comprensione, di pazienza, di equilibrio, che il servizio agli handicappati richiede.
Senonché un vescovo, mi prospettò la difficoltà di alcuni minori handicappati che, giunti al 14 anno di età, non potevano più essere ospitati a casa Serena e, secondo le norme allora vigenti, dovevano essere rimandati alle famiglie o ricoverati all’Ospedale Psichiatrico, dove due di loro erano nati (eravamo nel 1967).
Questo discorso era così sconcertante per me, mi faceva soffrire; ma, d’altra parte, quella preoccupazione di prima si rafforzava: non mi sentivo capace di assumermi questo impegno. D’altra parte riflettevo: l’handicappato è un uomo… è necessario che ognuno di noi si liberi dai condizionamenti che culture materialiste (consumismo, neocapitalismo) hanno provocato, narcotizzando la nostra realtà e prospettando l’uomo sotto una luce errata: l ‘uomo che vale, che ha, che è giovane, che è atleta, la donna che è bella, l’attore, quello che è riuscito a realizzare una grande industria… si fa un mito dell’uomo efficiente, che produce, che si impone, che conquista spazi, che realizza imprese geniali. È chiaro che in questo contesto l’uomo che non è dotato di forza, di indipendenza, di soldi, di particolare ingegno, vale’ sempre meno fino a non valere niente… Questo discorso era chiaro per me, ci ho creduto e ci credo fermissimamente, insieme a tutti gli uomini di buona volontà; credo che nessuno di noi esita di fronte alla proposta di Fromm tra avere o essere. In pratica molte volte invece anche noi ci lasciamo condizionare da questo contesto culturale e preferiamo l’avere anziché l’essere, per noi, per i nostri figli, per gli altri, creando situazioni negative. In questo contesto che dal punto di vista teorico, dei principi, per me era chiaro, la prassi era quella che mi sconcertava. Tuttavia, anche per l’insistenza di Mons. Ferro, dovetti farmi carico di questo problema.
Ricordo ancora l’incoscienza di andare a parlare di un problema così serio proprio all’Istituto Industriale, non perché lì ci fossero persone meno intelligenti delle altre scuole, però dal punto di vista culturale era la meno indicata; ma io lì insegnavo e disperato andai in una classe e cominciai a prospettare questo problema, chiedendo a loro una soluzione. Alcuni accettarono di incominciare questa avventura, sostenuti sempre dall’esperienza di Casa Serena, allora ancora allo stato embrionale. Ci siamo messi insieme, convinti della necessità di rispettare e difendere l’uomo e di “opporci”, in questo periodo di contestazione generale (eravamo nel 1967-68), a questa corrente narcotizzante, avvilente, livellante, massificante, che da culture egemoni scendeva fino alle periferie e anche fra noi manipolava l’uomo ne impediva la crescita, la realizzazione. Tutto questo era sofferto e creduto, noi all’Industriale queste cose le combattevamo.
Dentro questa situazione ci siamo mossi per dare una mano a questi fratelli, un po’ improvvisando, anche sbagliando dal punto di vista scientifico, ma realizzando qualcosa di fatto, aprendo un cammino. Le motivazioni le abbiamo saldate con la prassi, e da questa esperienza, che ci siamo sforzati via via di rileggere, di verificare, di sottoporre a critica, sono venute sempre ulteriori indicazioni. Questo stile di lavoro è stato, in questi anni, la caratteristica della nostra attività.
I valori propri del servizio credo che ognuno di noi li abbia dentro: li ha dalla sua umanità, dalla rettitudine della sua coscienza, li ha anche dalla sua capacità critica di resistere a quell’influsso pericoloso, insidioso, che arriva a noi anche attraverso i mezzi di comunicazione sociale, ma che è la sostanza prima del nostro vivere culturale, civile, familiare, di relazione. Se c’è questa capacità di resistenza, questa vivacità di motivazioni, allora la scelta verso i portatori di handicaps è una scelta consequenziale e obbligatoria dal punto di vista morale; in effetti i più indifesi tra i deboli, quelli che non hanno del tutto voce tra tanta gente che può sommessamente portare avanti la sua esistenza, sono proprio i portatori di handicaps, e tra questi i portatori di handicaps mentali sono veramente in umanità gli ultimi.
La fede mi ha dato qualcosa in questo campo? Certo. La motivazione prima mi è venuta dal mio essere cristiano, da Cristo. Pur cogliendo e accettando tutte le motivazioni che una cultura laica ci dà per la speranza, io non sono pienamente soddisfatto se non riesco ad ancorarla alla Resurrezione di Cristo: io non credo solo al Cristo che si è fatto uomo, credo al Cristo che è passato attraverso il crogiuolo della sofferenza, della umiliazione, della morte (e qui rileggo un pò tutto il dramma dell’umanità), e che è risorto, accendendo una luce che la morte non può spegnere, anzi direi che dalla morte, dal dramma della sofferenza e del dolore, trae la sua più piena e più forte originalità.
“CAMMINANDO SI APRE IL CAMINO”. Nel 1968 abbiamo aperto il nostro cammino della Piccola Opera Papa Giovanni, insieme ad altri che avevano già avviato il cammino. Il cammino lo si inizia, ci sono stanchezze, difficoltà, errori compiuti in buona fede: però con la fiducia che “Camminando si apre il cammino”.
Nel nostro cammino, tenendo presente soprattutto i nostri ragazzi, i nostri giovani, i nostri amici handicappati, tutta la realtà di sofferenza di questa nostra città, io credo che coraggiosamente, senza improvvisazione ma con fermezza, con costanza, possiamo andare avanti.
Mons. Italo Calabrò
Data: 1980 (presunta)